Nei numeri precedenti si è scritto della predisposizione degli ingranaggi a vite senza fine e ruota elicoidale a fungere da dispositivi autobloccanti. Con questo s’intende dispositivi che non consentono il funzionamento quando l’albero condotto è soggetto a una coppia motrice, invece di una coppia resistente che si oppone alla rotazione. Per farsi un’idea di questa situazione, si pensi a una vettura che viaggi in discesa spinta dalla sola forza peso, e quindi che è frenata dal motore. Questo fenomeno può aver luogo sia in condizioni statiche (ad alberi fermi), sia in condizioni dinamiche (ad alberi in movimento), sebbene sia più comune nel primo caso.
In teoria, fino a quando il coefficiente d’attrito tra la vite e la ruota è maggiore della tangente dell’angolo d’inclinazione dei filetti, l’ingranaggio è autobloccante. Questa condizione può venire espressa anche in termini angolari: se l’angolo del cono d’attrito (ottenuto dall’arcotangente del coefficiente d’attrito) è maggiore dell’angolo d’avvolgimento del filetto, il funzionamento è autobloccante.
Il coefficiente d’attrito statico dipende innanzitutto dai materiali dei due elementi e dal regime di lubrificazione, ma dipende anche da altri fattori, come per esempio la condizione delle superfici e la presenza di vibrazioni.
Che l’autobloccaggio sia più probabile in condizioni statiche che dinamiche è spiegato dal fatto che il coefficiente d’attrito dinamico è minore di quello statico. Oltre ai fattori visti in precedenza, l’attrito dinamico è influenzato anche dalla velocità di rotazione degli alberi e dal regime di lubrificazione che si instaura sotto carico in condizioni dinamiche.
Per dare un’idea della differenza fra i due casi, si consideri che il coefficiente d’attrito statico tra una vite in acciaio e una ruota in bronzo è di circa 0,15, cui corrisponde un angolo d’attrito di circa 8.5° [arctan(0,15) = 8,5], mentre il coefficiente d’attrito dinamico può variare da 0,08 a bassa velocità (angolo di 4,6°) a meno di 0,02 ad alta velocità (angolo di circa 1°).
Risulta evidente che il progettista deve trovare un compromesso fra l’esigenza di ridurre le perdite dovute all’attrito, al fine di aumentare l’efficienza del dispositivo, e quella di garantire l’autobloccaggio: il coefficiente d’attrito, infatti, dev’essere basso nella prima, e alto nella seconda.
Come già visto, i dispositivi autobloccanti sono utili nelle applicazioni di sollevamento e/o tenuta di carichi sospesi. Tuttavia le norme raccomandano di impiegare freni, piuttosto che affidarsi unicamente alla capacità autobloccante dell’ingranaggio.

Carlo Remino
Ricercatore in Meccanica Applicata alle Macchine presso la facoltà di ingegneria dell’Università degli Studi di Brescia. carlo.remino@unibs.it